Chi si esprime oggi sulla scuola corre il rischio di apparire subito come un acritico e noioso laudator temporis acti. Non è così: chi si esprime oggi sulla scuola ha riflettuto a lungo e sa che la sua non è una laudatio temporis acti, ma una laudatio temporis.
Sì, perché la scuola, più che ogni altra cosa, ha perduto il tempo. È come se negli anni si fosse aperta una crepa attraverso la quale scorre via il tempo, il tempo giusto, quello lento, il tempo della riflessione, il tempo dell’apprendimento.
La scuola vive un inquietante incantesimo: tutto è accelerato, niente riesce a lasciar traccia, calpestato da ciò che segue, condannato alla stessa sorte. Eppure il tempo dell’apprendimento è il tempo della lentezza e, se “insegnare” significa “imprimere un segno” nella mente del discente, bisogna riconoscere che riuscire a lasciar traccia è impresa sempre più ardua, nel labirinto delle parole altisonanti e vuote, nella vetrina ridicola e imbarazzante del “sapere” e del “saper fare”, nell’illusione disonesta delle competenze senza le conoscenze, delle «scintille» senza «la legna», direbbe Gustavo Zagrebelsky.
Il tempo della scuola è un tempo distratto, confuso, opaco, che costruisce un sapere disorganico, evanescente, un sapere destinato a svanire con la stessa velocità con la quale è stato costruito. Con la lentezza è andata via la profondità, allontanata come in un rivisitato supplizio di Tantalo, dove il frutto intravisto appena e subito negato è la possibilità di andare al fondo delle cose.
Possibilità irrealizzabile, perché “non c’è tempo”. Rimane la superficie, sfiorata e presentata magari sulla carta come profondità, alla voce “approfondimenti”. Perché per le carte il tempo c’è. Deve esserci. Un brutto mattino kafkiano il docente si è svegliato burocrate e ha dovuto imparare l’aridità e il nonsenso, il trionfo della forma, il tempo speso male: l’orologio della scuola è un orologio impazzito, che segna un tempo nemico dell’apprendimento, un tempo in cui il numero delle ore sottratte non è compensato dalla qualità di quelle (ancora) concesse.
La scuola è morta quando ha smesso di credere nell’importanza dei “dati”, quelli che si possono trarre anche dalla rete; è morta quando ha, con disprezzo, definito “nozionismo” il sapere; quando ha cominciato a temere la valutazione, impedendo la crescita; quando ha cominciato a raccontare e a raccontarsi bugie; quando ha dipinto la sua facciata con troppi sospetti colori, trascurando irrimediabilmente gli interni.
È morta quando ha smesso di credere nella scuola. L’hanno lasciata morire quelli che Primo Levi chiamava «gli uomini comuni», più pericolosi dei mostri, «i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere». Quelli che quel brutto mattino avrebbero dovuto lottare per arrestare quell’orribile metamorfosi. E invece hanno accettato di essere spazzati via.
nata a Napoli nel 1973, laureata in lettere classiche, docente di italiano e latino (liceo scientifico); dottore di ricerca in Italianistica; autrice di varie pubblicazioni di saggistica; collaborazione al manuale di letteratura italiana per il triennio delle superiori “Rosa fresca aulentissima”
Condivido questo articolo in tutte le sue osservazione sulla scuola e sul ruolo degli insegnanti.Ho insegnato 35 anni e conosco bene l’importanza della figura dell’ insegnante nella formazione della società futura avvilita dalla sua trasformazione in burocrate e dall’assenza di meritocrazia sia per i docenti che per gli alunni.
Articolo lucido e tristemente vero.
Brava, complimenti.
Io insegno da poco. Facevo un altro mestiere, al CNR e all’università. Poi ho fatto il TFA e mi sono affacciato alla scuola che non frequentavo da quando non ci andavo. Io la trovo meglio di quella che ha formato me, ma molto molto meglio. Eppure capisco che ci sia stato anche un declino, un tradimento. Difficile conciliare queste cose. L’articolo dice cose interessanti, ma penso che si debba scavare di più, vedere cosa è cambiato davvero.
Mi dispiace ma non sono d’accordo su nulla. La scuola è viva ed è retta ancora da pochi docenti che hanno voglia di fare la differenza. Gli alunni sono diversi da quelli di un tempo, hanno bisogno di input continui e solo chi è disposto a mettersi in gioco, che ha veramente voglia di fare può fare la differenza. Mi dispiace leggere queste parole da chi dovrebbe far appossionare i propri alunni e lasciare un segno positivo dentro di loro.