Ricordo perfettamente quando arrivò la lettera. Quella che avrebbe cambiato tutto. Mi si chiedeva di diventare una maestra. Sarei entrata in una classe e poi in un’altra, a fare la differenza.
Credo sia stata una delle emozioni più grandi della mia vita. Avrei lasciato il mio vecchio lavoro, in un ufficio marketing per cui curavo la corrispondenza. Non ero disoccupata, non ero a caccia di un lavoro. Mai fatta una supplenza, dopo il concorso, cominciato a un mese dalla laurea in lingue, anno 1994, perché avevo le mie otto ore ed andava bene così.
Ma insegnare era meglio. Il meglio che potessi immaginare di fare nella vita. Scuola primaria perché, come diceva la Montessori, sono loro l’umanità migliore e si può incidere tanto a quell’età. Nella mia prova d’esame (si cominciava a parlare di “autonomia”) avevo scritto in modo appassionato di come “Lettere a una professoressa” mi avesse fulminato.
Non è giusto fare parti uguali tra diversi. Ogni realtà classe è unica e va seguita in modo diverso, in base agli elementi che la compongono. Tener conto di tutto e tutti. Non dar niente per scontato. E nessuno. Non smettere d’imparare, di provare, di cadere e rialzarsi. Ero orgogliosa.
“Ma tu, sei abbastanza grande per stare qui?” Mi ha detto una voce piccola e decisa, il primo giorno. Non sarà uno scherzetto, ho capito subito. La scuola elementare, come si chiamava ancora nel 1998, non aveva pc ma io non ne avevo bisogno. Oltre ai libri di testo, portavo a scuola articoli, poesie, libri miei che volevo condividere, canzoni che chiamavo “poesie in musica”.
Era bello dare e ricevere. Mi sentivo utile e arricchita, ogni anno. Poi è arrivata la Moratti e le sue tre “i”. Hanno cominciato a contrarre le ore, buttando però roba a caso nell’orario (motoria? informatica? inglese?)… Ma le 30 ore son diventate 27. Meno di tutto, quindi. È cambiato il nome in “primaria”, hanno tolto gli esami di quinta, prezioso momento di riflessione sul percorso, sottratto dall’oggi al domani, senza consultare nessuno.
Ha fatto il suo ingresso trionfale l’Invalsi. Un Invalsi fai da te, all’inizio: abbiamo elaborato le prime prove noi docenti. Poi, no: ci hanno ripensato. Non più noi, ma un gruppo ristretto e lontano da ogni possibile realtà ha tirato fuori dal cappello esami degni di un quiz a premi della tv. Senza premi, però. Deprimente per chi non è livellato col loro metro, fonte di ansia e frustrazione per operatori e utenti. Noi, come impiegati, a tabulare gratis le risposte per il cervellone.
Ed ecco le prove oggettive e l’insediamento definitivo di un presunto sistema di valutazione con griglie e parametri definiti, in nome della garanzia della qualità dell’istruzione “somministrata”. Tipo medicina, cioè. Pensare all’obbligo di redigere PTOF, PdM, Rav… mille cose a tutela di una “scuola di qualità”. E gli Open Day con gli insegnanti promoter sorridenti di progetti e progettini a far da vetrina. I genitori “consumatori” da accontentare. Caduta libera.
Fino ad oggi. Emergenza Covid. E adesso? La maggioranza si è rimboccata le maniche e si è data da fare, senza risparmiarsi. Senza che nessuno gliel’avesse chiesto. Senza che nessuno ringraziasse per questo. Né lo farà dopo. Ho passato anch’io giorni, settimane ad aggiornarmi su piattaforme, videolezioni. Tutto, pur di raggiungere i miei alunni in qualche modo.
Poi i primi segni di vita: forse a settembre anticiperemo l’Invalsi, così valutiamo la situazione. In effetti, se ne sentiva l’esigenza. A giugno eravamo già sommersi da tonnellate di carte. Che non ci si scordi di pdp, registro elettronico e cronoprogrammi, anche se non abbiamo più messo piede a scuola e il rapporto personale è stato solo un ciao maestra da Zoom. La formazione possibile era nella mia testa.
La valutazione capillare, per una volta, avremmo anche potuto mandarla a quel paese. Scherziamo? A settembre mascherine e protocolli rigidi. Grosso impegno per organizzare la presenza in sicurezza. Sì, perché vorremmo disperatamente tornare. Vederci, almeno. Anche a un metro di distanza. Alti e bassi.
Siamo in Puglia e inizia il braccio di ferro: scuola chiusa/scuola aperta. Anzi no: entrambe. Entrambe, sì: trasformatevi in studi televisivi e garantite la didattica sincrona a casa, mentre seguite i presenti in aula. Fa niente se non c’è rete. La rete ce la potenziano. Intanto.
Mi sentite? Non vi sento. I genitori decidono, sorry. I politici decidono. Gli insegnanti, no, nuovamente no: quelli non li hanno nemmeno pensati. Loro eseguiranno e basta, come al solito.
Buffo, no triste, terribile, ma vero.
Insegnante alla scuola primaria “Falcone” di Conversano come maestra prevalente
Articolo molto bello e tristemente vero.
Grazie… spero solo che un giorno le cose cambieranno in meglio.
Verissimo, tristemente vero, purtroppo. Sembra un declino inarrestabile. I bambini sanno darci comunque tanto entusiasmo ma è, veramente, sempre più difficile.
Tutto vero. nella scuola in cui sono, la dirigente è chiaramente dalla parte dei genitori per paura di perdere alunni. noi non contiamo nulla. la valutazione è sempre più una farsa.
Centrato centrato centrato