A quasi un anno di distanza dall’irruzione del Covid-19 nelle nostre vite, non possiamo non notare quanto questo ci abbia costretti ad una riorganizzazione delle abitudini, drastica e con poche mezze misure. Questi mesi, infatti, sono stati caratterizzati dal passaggio al ‘non-fare’: non uscire di casa, non abbracciare, non fare assembramenti. E la scuola?
La scuola si trova ad affrontare un’emergenza educativa, che vede in questo periodo di pandemia non il suo inizio, bensì il suo inarrestabile avanzamento. Se la scuola pre-Covid richiedeva già un cambiamento, una nuova visione delle cose, per la scuola post-Covid sembra essere una necessità.
La scuola dei nostri giorni è una scuola spogliata del suo ruolo simbolico, sociale, culturale, etico e morale. Non si va più a scuola per crescere, ma solo per ‘obbligo’.
Con il ricorso alla Didattica a Distanza (DAD), questi aspetti sembrano essersi acuiti. Infatti, gli insegnanti, per primi, si sono dovuti adattare a modalità di insegnamento nuove, in taluni casi, sconosciute. La scuola ha perso la sua collocazione fisica: oggi si può ‘andare’ a scuola anche stando comodamente sdraiati sul letto. Ogni studente può con un click disattivare l’audio del docente, così da ritornare nella bolla che lo tiene al caldo, evidenziando così quanto, anche la figura del docente, sia oggi simbolicamente sminuita.
La DAD, infatti, non lascia spazio ad altro, non può esserci contatto con i pari o con gli insegnanti, non c’è un confronto vivo e pieno: lo schermo filtra tutto, c’è un tempo di reazione e di recezione diverso, che non è quello della vita.
Da questo status ovattato tra le quattro mura di casa, come si potrà tornare all’insegnamento sui banchi? Cosa si può fare per non restare inermi dinanzi tutto questo?
Bisogna, in maniera intelligente, partire da un’attenta analisi di ciò che stiamo vivendo, dei cambiamenti a cui ci siamo dovuti adattare, a ciò che non sarà più lo stesso. È necessario tener conto dell’importanza che rivestirà, tornando a scuola, il rimodulare ancora le proprie abitudini, le sensazioni, ma anche le paure, in quanto il ritorno tra i banchi di scuola potrà rappresentare un trauma.
Questo rende necessario un progetto chiaro che tenga conto di tutte le variabili e componenti della situazione. Sarebbe utile, a livello istituzionale, ad esempio, considerare e inserire a pieni titoli, all’interno del tessuto scolastico, due figure professionali di supporto e crescita: il pedagogista e lo psicologo.
Si potrebbe gridare allo scandalo, magari non sapendo né cosa fa il pedagogista, né che lo psicologo non è colui che cura i matti.
Il pedagogista è una figura specializzata che si propone di analizzare e sviluppare i bisogni educativi, formativi e di apprendimento all’interno di un sistema che non tenga conto soltanto dei bambini e dei ragazzi, ma anche e soprattutto degli insegnanti e collaboratori. Il pedagogista riesce a gestire e trasformare contesti complessi di lavoro o di studio che richiedono nuovi approcci strategici. È proprio da quest’ultimi che bisogna partire oggi.
Lo psicologo, invece, è una figura professionale che, seppur annoverata tra le professioni sanitarie, può essere formato per prevenire, gestire e risolvere quelli che potrebbero essere dei disagi emotivi e/o cognitivi a scuola.
Le due figure potrebbero collaborare nel costruire dei progetti di rieducazione non solo per gli studenti, ma anche per gli insegnanti, accompagnandoli a riscoprire il nuovo ruolo che si trovano a svolgere, non relegato più a quello di essere meri trasmettitori di nozioni sterili, ma – per dirla con Massimo Recalcati – di non indietreggiare e di essere testimoni di umanizzazione della vita in cui, l’amore per la conoscenza deve esserne la linfa.
Oggi, infatti, nessuno tra insegnanti e alunni, è avvantaggiato, ma chi potrebbe farne le spese più grandi è la classe in formazione, per la quale la scuola è un territorio prezioso e non trascurabile. La scuola dovrebbe formare menti pensanti e critiche, dovrebbe abituare al ragionamento analitico, aiutando gli stessi ragazzi a non indietreggiare, a non vestire i panni di vittime, ma rendendoli consapevoli di essere sempre in tempo anche se in ritardo.
Angela Pepe
Francesco Maria Boccaccio
Maria Leonardi
Tre studenti di psicologia clinica dell’Università degli Studi di Catania