MenteDidattica è la rivista per gli insegnanti, scritta dagli insegnanti. Un punto di riferimento per discutere, conoscere e condividere le migliori pratiche didattiche e scolastiche
Mi piace partire dalla semantica, da ciò che dà senso e valore alla parola.
SCUOLA deriva dal greco σχολή (scholè), che inizialmente indicava l’ozio, il riposo, l’occupare piacevolmente il tempo libero e solo in seguito è passata ad indicare la discussione e la lezione, e il luogo in cui questa veniva tenuta.
La scholè era proprio il tempo in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana per dedicarsi allo studio e al ragionamento. Nel corso dei secoli il significato si è esteso a indicare il “luogo in cui trascorrere il tempo libero”, cioè il posto in cui si tenevano discussioni filosofiche o scientifiche, che appunto i sapienti praticavano durante il loro tempo libero. Da lì poi divenne il luogo in cui ci si poteva istruire, ascoltandoli.
La radice profonda di questa parola, il senso vero che attraversa i millenni è proprio “il tempo libero” e non libero perché vuoto, ma perché – dall’infanzia all’università – matura le coscienze, spalanca, attraverso la conoscenza, le porte alla vita autentica, priva di servaggi e di catene.
Ma oggi dov’è finito tutto questo? Cos’è rimasto di questo spazio libero in cui dedicarsi all’esercizio del pensiero e del ragionamento se tutto è solo burocrazia?
Come si può promuovere la maturazione delle coscienze se tutto viene imbrigliato in griglie e schede e rubriche dove quello che conta sono la parcellizzazione, la frammentazione, la suddivisione di saperi formalizzati e pensieri uniformati?
Come si possono sviluppare pensiero critico, creatività, promozione di quei talenti personali ed individuali che ci rendono unici ed irripetibili, se tutti dobbiamo uniformarci nei metodi, nei mezzi e nei contenuti?
Sono decenni ormai che si cerca di spingere in una direzione assurda che vuole fare della scuola un’azienda ed ecco di nuovo a venirci incontro la semantica: sono spariti il direttore didattico ed il preside, oggi c’è il dirigente; sono spariti gli asili (che nella loro radice avevano l’auxilium, l’aiuto), che non sono più neanche scuola materna, ma semplicemente scuola dell’infanzia (e se non fosse chiaro cosa ciò comporta ve lo esplicito: non conta più cosa questa scuola, questo spazio si propone di fare e come lo vuole fare, ma si sposta l’attenzione sull’utente, sul “consumatore”); è sparita la scuola elementare, dove appunto si acquisivano le basi gli elementi di partenza, e al suo posto abbiamo la primaria, il primo stadio di una serie; sono sparite anche le medie (la scuola che sta nel mezzo tra l’infanzia e la giovinezza, tra le basi del sapere e le conoscenze superiori) e hanno ceduto il posto alla secondaria, beh ovvio il secondo stadio, ma poiché pareva strano poi trasformare le scuole superiori (quelle del sapere superiore, della conoscenza che si approfondisce e si affina) in scuola terziaria, dal momento che sono il terzo stadio, ecco che allora hanno aggiunto i gradi primo e secondo!
E ci son tanti che son convinti che tutto ciò sia stato una riforma!
In effetti è così, la scuola è stata ri-formata, ma nel senso che le è stata data una forma diversa che l’ha snaturata.
Oggi la scuola non è più quel luogo in cui docenti e discenti si incontrano, in cui insegnanti e allievi insegnano (in signum, lascio il segno) e imparano (acquisiscono conoscenze e capacità con lo studio e l’esercizio); oggi l’insegnante è ridotto sempre più a mero impiegatuccio esecutore di ordini e applicatore di sistemi didattici preconfezionati, in cui i mezzi diventano essi stessi l’unico contenuto della didattica. E gli alunni, in barba alla sbandierata centralità dello studente, diventano anch’essi semplici esecutori. Anch’essi, come gli insegnanti, mere rotelle di un ingranaggio di charlottiana memoria.
Dov’è finito l’insegnante professionista con il compito e la capacità di portare avanti un progetto culturale ed educativo, l’insegnante intellettuale capace di interessare e appassionare, l’insegnante depositario di conoscenze da offrire ai discenti? Non è più questo che la scuola di oggi gli chiede, e non c’entra l’emergenza sanitaria, questa sta diventando solo un mezzo per accelerare un processo in atto da lungo tempo. Sono anni ormai che la scuola è fatta di sigle ed acronimi (POF, PTOF, PIA, PAI, PDP, PEI, UDA, TIC, DSA, BES, ADHD, GLHI, GLHO …), che nascondono il vuoto di una burocrazia sempre più invadente ed invasiva, e di anglicismi (middle management, problem solving, Integrated Learning, tutor, co-teaching …) che non fanno altro che confondere le idee e rendere tutto meno chiaro ed esplicito.
E passiamo ora al secondo termine lo studio.
STUDIO deriva dal latino studium: applicazione, zelo, amore, passione…; connesso con il verbo latino studere: applicarsi a, dedicarsi a, studiare, desiderare.
E se lo studio è amore, studiare vuol dire amare, amare il sapere, la conoscenza, desiderare di imparare.
Quando si studia, come recitano i dizionari, si fa oggetto di applicazione mentale costante e metodico una disciplina, un argomento, un’arte o una tecnica al fine di apprenderla, valendosi del sussidio di libri o di altri strumenti, spesso sotto la guida di un insegnante.
Ci sono tutti i nuclei fondamentali che hanno caratterizzato l’etimo latino: la passione, l’assiduità, l’applicazione, la pratica, la dedizione profonda, il desiderio di imparare.
Il tutto finalizzato alla conoscenza.
Non trovo alcun accenno, in tutto questo, a competenza, parola usata ed abusata nella scuola oggi!
Si diventa competenti vivendo, con il tempo e nel tempo, non è la scuola che dà le competenze, la scuola fornisce gli strumenti, le conoscenze, i metodi per sviluppare competenze.
A scuola ai nostri alunni dobbiamo chiedere lo studio se vogliamo contribuire davvero alla loro formazione, alla loro crescita, alla loro educazione e non la mera esecuzione di compiti, né solo prestazioni finalizzate. Così facendo non credo diamo il nostro contributo perché diventino uomini e donne completi, al massimo addestriamo soldatini, bravi esecutori, impeccabili servitori, non di certo spiriti liberi e capaci di immaginare nuovi e migliori futuri.
L’unica accezione in cui potrei accettare a scuola la parola competenza è ancora una volta nel suo significato etimologico da cum-petere e dunque nel significato di chiedere insieme, convergere verso un medesimo obbiettivo, ma nulla di tutto questo è rimasto nelle competenze che dovremmo far acquisire ai nostri alunni.
Nulla è rimasto del suo aspetto collaborativo, anzi io miro ad essere più competente di te e dunque a superarti. E così anche le competenze diventano competizione.
Non è questa la scuola per la quale ho studiato, mi sono preparata, mi sono formata, mi aggiorno e continuo a studiare; non è questa la scuola nella quale voglio lavorare.
In una scuola così non mi riconosco più e mi dissocio, mi riapproprio del mio ruolo, mi ribello all’imposizione di metodi, strumenti e modelli, che scuola non sono.
Mi ribello ricominciando a fare più l’insegnante e meno il burocrate, dedicando le mie energie sempre più ai miei alunni e sempre meno alle scartoffie, fiumi di parole che nessuno legge, spesso vuote di significato vero, proprie di una scuola che è apparenza e non sostanza.
Ritorno a fare solo l’insegnante.
Professoressa di lettere in una scuola secondaria in provincia di Padova
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